La filosofia islamico-araba: Avicenna e Averroè

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La filosofia islamico-araba: Avicenna e Averroè

In questo articolo “La filosofia islamico-araba: Avicenna e Averroè” vedremo alcuni punti essenziali della filosofia islamico araba e i due principali filosofi di questo periodo, Avicenna e Averroè.
Lo svilupparsi di rapporti commerciali ma anche militari (le Crociate) dell’Occidente col mondo orientale, e soprattutto con gli Arabi, consente la diffusione delle opere rimaste sconosciute della filosofia e della  scienza greche,specialmente quelle di Aristotele, che gli Arabi avevano ereditato ed assimilato nei secoli precedenti attraverso i filosofi dell’Impero Romano d’Oriente, allorché la cultura occidentale invece, col crollo dell’Impero Romano d’Occidente, era quasi completamente caduta in oblio.
Anche la filosofia araba, del resto, si presentava nel proprio ambito come una scolastica, cioè come tentativo di trovare una spiegazione razionale alla verità religiosa rivelata dal Corano.
Il periodo di maggior fioritura della filosofia araba si ha tra l’11º e 12º secolo. In essa possiamo distinguere due radici fondamentali: quella neoplatonica, rappresentata specialmente da Avicenna, il cui aristotelismo è in realtà più apparente che sostanziale, e quella aristotelica, che ha il maggior esponente nel filosofo Averroè.

Avicenna (persiano: 980-1037)

La filosofia islamico-araba: Avicenna e Averroè

Avicenna formula nel modo più chiaro il principio che caratterizza la filosofia araba nel suo insieme: il principio della necessità dell’essere, secondo cui tutto ciò che è, o accade, è o accade necessariamente e non potrebbe essere o accadere in modo diverso. L’essere è la proprietà comune a tutte le cose: qualsiasi cosa, prima di essere ciò che specificatamente è, deve innanzitutto essere, cioè esistere. L’essere inteso in generale è dunque un’essenza, una proprietà unica e indeterminata comune a tutti gli enti, che successivamente si determina negli enti singoli. Avicenna distingue ulteriormente tra essere possibile ed essere necessario: tutti gli enti che incontriamo nell’esperienza sono enti possibili (poiché avrebbero anche potuto non essere, non esistere), i quali pertanto non hanno in sé la causa della propria esistenza. Ma dato che esistono, devono allora aver ricevuto l’esistenza da un altro ente, il quale pure, a
sua volta, può essere possibile o necessario; se quest’altro ente è pure esso possibile, deve aver ricevuto anch’esso l’esistenza da un altro, e così via finché non si giunge ad
un essere necessario che ha in sé la causa della propria esistenza: questi è Dio. È una prova dell’esistenza di Dio che, come vedremo, sarà ripresa da Tommaso
d’Aquino. La distinzione tra essere possibile ed essere necessario è fondamentale perché separa il mondo da Dio. L’essere necessario è soltanto uno (monoteismo) ed
esso assume il grado di primo principio e di causa prima. Ma quale è il rapporto tra il mondo (la natura) e Dio? Si tratta di un rapporto di necessaria ed automatica emanazione (Plotino) o di un rapporto di libera creazione? Avicenna risponde fondendo insieme Aristotele e il neoplatonismo. A suo avviso il mondo è contingente (=che può o non può essere) e necessario insieme: è contingente in rapporto a se stesso ed è necessario rapporto a Dio, il quale non può che agire secondo la sua natura, che è quella di principio e causa prima, ossia di
creatore. Perciò la creazione non è un atto libero ma si svolge necessariamente come creazione-emanazione da Dio: una volta che Dio ha creato i vari enti questi
esistono necessariamente; è una necessità di fatto. Concepito aristotelicamente come pensiero di pensiero, Dio pensando se stesso produce necessariamente la prima Intelligenza (il Figlio o il Verbo cristiani), la quale produce a sua volta la seconda Intelligenza e così via, avviando un processo discendente necessario e non libero.

Ogni intelligenza crea necessariamente quella inferiore (i diversi cieli) fino alla decima. La decima intelligenza, a differenza delle altre, non genera una nuova realtà ma agisce sul mondo terrestre posto sotto il nono cielo della Luna. Agisce sia sul piano ontologico che su quello gnoseologico: sul piano ontologico struttura per emanazione il mondo in forma e materia corruttibile, a differenza di quella incorruttibile dei cieli; sul piano gnoseologico opera il passaggio dalla potenza all’atto dell’intelletto umano individuale possibile, o intelletto passivo, imprimendo in esso i principi primi e i concetti universali che apprendiamo mediante astrazione. Siamo quindi di fronte a una forma di innatismo.

In particolare, rifacendosi ad Aristotele, Avicenna distingue fra:
1. intelletto attivo, che è quello divino;
2. intelletto passivo, che è quello umano e che riceve dall’intelletto attivo, per emanazione-irradiazione, i principi in base a cui è posto in grado di ragionare e dedurre;
3. intelletto acquisito, o intelletto in atto, che è quello che ragiona e astrae i concetti dalle immagini sensibili individuali.

Questa dottrina interessò molto gli scolastici latini perché pone in dubbio l’immortalità dell’anima. Infatti immortale è solo l’intelletto attivo, l’unico che non ha bisogno del corpo per funzionare. L’anima dell’uomo, afferma Avicenna, ritorna dopo la morte all’intelletto attivo universale; esso soltanto quindi è immortale
e non anche l’anima individuale vegetativa e sensitiva.

Averroè (Cordova 1126-Marocco 1198)


Tutto sommato, l’aristotelismo di Avicenna non destò grosse perplessità presso i filosofi cristiani (se non all’anima vegetativa e sensitiva, a quella intellettiva sembra comunque riconosciuta una qualche forma di immortalità). Non fu così per l’aristotelismo di Averroè, a causa della sua fiducia totale nella ragione che lo porta a tre concezioni in contrasto con la dottrina cristiana:
1. la necessità dell’essere (della realtà), da cui consegue la negazione della creazione del mondo come libero atto di Dio;
2. l’eternità del mondo;
3. la negazione dell’immortalità delle anime singole.

Queste tesi erano in contrasto anche con la religione islamica e perciò Averroè subì l’esilio.
Per Averroè la filosofia non solo è indipendente dalla teologia e dalla religione ma è mezzo privilegiato per giungere alla verità. In caso di contrasto tra filosofi e teologi, il testo religioso va interpretato in base alla ragione, poiché le verità religiose esposte nel Corano sono simboli imperfetti, e come tali da interpretare, in quanto formulate in un linguaggio adatto a persone semplici ed ignoranti. Le divergenze tra filosofia e teologia sono cioè, più che altro, differenze di interpretazione anziché effettiva diversità di principi essenziali: non vi è contrasto di fondo tra fede e ragione, però la ragione ha un ruolo di guida per la comprensione della rivelazione divina.
Tra i filosofi arabi, Averroè è stato il principale commentatore delle opere di Aristotele. Per lui la dottrina di Aristotele è la verità stessa. È inoltre convinto che la filosofia aristotelica sia in fondamentale accordo con la religione musulmana, che sa anzi esprimere meglio, in forma scientifica e dimostrativa.
Primo concetto fondamentale di Averroè è la necessità di tutto ciò che esiste: la necessità dell’essere. Il mondo è necessario perché necessariamente creato da Dio.
Dio è perfetto per cui ciò che egli fa deve necessariamente rispecchiare questa sua perfezione: se non avesse creato il mondo Dio sarebbe imperfetto. Oltre che necessario, il mondo è anche ordinato in virtù della perfezione divina e tale ordine dirige la stessa azione degli uomini, i quali pertanto non hanno né capacità né libertà d’iniziativa. Il principio dell’ordine del mondo ha da sempre favorito e stimolato la ricerca scientifica, per la sottintesa fiducia di poter scoprire e comprendere scientificamente quest’ordine medesimo in tutti i fatti naturali.
Derivante dalla dottrina della necessità dell’essere e del mondo è la dottrina dell’eternità del mondo. Averroè ammette, come Avicenna, che il mondo è stato creato, poiché l’essere del mondo è un essere possibile che non verrebbe alla realtà senza l’azione creatrice di Dio. Ma egli vede nella creazione non già un atto libero di Dio bensì una manifestazione necessaria di Dio stesso, per cui il mondo non ha avuto inizio nel tempo, ma è coeterno a Dio derivando dalla stessa natura di Dio: tutti i motori immobili sono eterni, e a maggior ragione il primo motore che è Dio, e tutti muovono eternamente i rispettivi cieli; pertanto è eterno anche l’universo nel suo complesso. In quanto perfetto, abbiamo visto, Dio non può non creare il
mondo e Dio, in quanto eterno, ha creato il mondo fin dall’eternità. La terza dottrina peculiare di Averroè è quella dell’unicità dell’intelletto: non esiste un intelletto passivo (o potenziale) individuale separato dall’intelletto attivo universale, per la ragione che, se l’intelletto passivo può trasformarsi in intelletto attivo allorquando passa in atto formando i concetti, deve avere allora la stessa natura dell’intelletto attivo. L’intelletto è quindi unico per tutti gli uomini; è un intelletto universale, potenziale e attivo al tempo stesso, e non è individuale: è separato dall’anima vegetativa e sensitiva umana. L’anima umana è quindi ridotta a materia (con esclusive funzioni vegetative sensitive) e proprio per questo
l’intelletto, in quanto capace di conoscenza universale, non può mescolarsi con l’anima umana individuale.

Se l’anima dell’uomo dunque è solo quella vegetativa-sensitiva legata al corpo, essa allora non è immortale. Invece l’intelletto passivo, diventando attivo nel passare in atto, non è parte dell’anima ma solo temporaneamente legato ad essa. Immortale è solo l’intelletto attivo universale, che può essere concepito come patrimonio dell’intera umanità. Con questa tesi Averroè intende anche salvare il sapere, che non perisce con l’individuo: l’intelletto universale può essere infatti inteso, altresì, come quello della specie umana, superiore al singolo
individuo, nel quale si conservano tutte le conoscenze via via acquisite dagli uomini. È ovvio come la tesi di Averroè che nega l’immortalità dell’anima abbia preoccupato non poco i filosofi scolastici. Infatti, se l’individuo e la sua anima si dissolvono con la morte, permanendo soltanto l’intelletto universale, allora l’uomo non è conclusivamente responsabile della sua attività spirituale, essendo essa super individuale, ed allora la predicazione sulla vanità del mondo e sulla resurrezione perde vigore. Si ritrovano qui i germi di una concezione materialistica o quantomeno naturalistica della vita e dell’uomo.

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